Sapere che si trova lì mi lascia senza fiato. Era piccolo, un grumo duro come un calcolo che spuntava sul collo di mia madre, all’altezza della tiroide. Irregolare, una rosa sbocciata coi petali taglienti. Tanti anni fa, forse dieci, lei cercò di toglierselo di dosso. Le rimase una cicatrice, come quella che il sanaporcelle lascia sulle scrofe, dopo aver gettato le loro ovaie ai cani affamati. Adesso il grumo è sparito, e con esso, mia madre. Stamattina però è tornato di colpo, e sta di nuovo là, nello stesso posto, su di me, per l’ultima visita in famiglia.
È meglio non farci caso, pensare che è un’allucinazione mattutina, come quando ne fai troppa nella tazza e le tracce rimaste sul fondo diventano una specie di segnale in codice proveniente dalle fogne. “Veniamo a prenderti”. L’ultimo messaggio era pressappoco questo. E in effetti mi sento già in ostaggio di una banda di stronzi, grandi e pervertiti, tendenti al marroncino. Forse una tazza di latte gonfia di cereali cambierà la situazione, sposterà il bolo verso un altro punto del corpo, della stanza, dell’edificio. Possibilmente verso il tetto, in pasto ai corvi, scambiato per uno scarafaggio sviluppato.
Ritorno in bagno, accendo la luce, lo specchio mi restituisce quello che volevo. Me stesso, senza tumore sulla giugolare.